(Antitesi di un Mercato)
Mi viene chiesto cosa sia stato per me il Mercato dei Poeti.
Dunque, vediamo: sono appena fuggito a una serpe di controllore che non vedeva l’ora di consegnarmi nelle grinfie della celere. Ho telato duro. Ora mi godo il sole e la vista di belle donne per cui le anime candide del leftbook mi chiamerebbero “sessista” – devono sempre inscatolare tutto – ma la mia sola malattia, amico mio, è di essere al mondo e di amare questa vita, non ho altro da aggiungere, se non BEVIAMO!
E poi mi si chiede cos’è stato il Mercato dei Poeti… E gli uccelli cantano in cielo. No veramente, non ci riesco. Come si fa a dare una forma alla vita? Vorrei trovare le parole per potermi esprimere – eppure, mi definiscono poeta – ma in questo caso, non si può dare una forma all’emozione.
Voglio dire, chi c’era sa esattamente cosa è stato, cosa poteva essere e cosa diventerà.
Ad ogni modo, quello che più conta, mentre la campana suona dietro di me, è che c’è stata una parola rispetto ai mercanti di quel luogo – che non mi è piaciuta, che non mi è piaciuta affatto e ha a
che vedere con questo: “restituzione”, sì, questa parola terribile scritta sulle case in affitto. Ecco, io non voglio più restituire, perché la restituzione – la parola restituzione – ha a che vedere con qualcosa di preciso, con il fatto che si è preso qualcosa prima in cambio e quindi si sente
l’obbligo di doverlo restituire. Ed io non voglio più rubare. Io voglio dare senza che mi sia restituito
nulla in cambio.
Io voglio smettere di rubare.
Io voglio perdere.